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Il blog di Cortes (81) |
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Finalmente un giudizio obiettivo su Roma!di Cortes del 06/03/2014 alle 11:35 http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/06/incuria-e-degrado-urbano-perche-roma-merita-di-fallire/903884/ |
Il Parlamento non vuole rinegoziare nulla con l'Europa !di Cortes del 17/01/2014 alle 10:30 Ieri mattina, alla Camera dei Deputati, i rappresentanti politici dei partiti che sono stati eletti dai cittadini lo scorso 25 febbraio, hanno avuto la possibilità di dare avvio a un cambio di passo, inoltrandosi su una strada europea diversa da quella consueta, ovvero: non più servi compiacenti, non più esecutori passivi, ma negoziatori alla pari con il resto delle 26 nazioni che compongono l'Unione Europea. Era, soprattutto, un banco di prova per avere una prova "oggettiva" del doppiopesismo del PD, dell'ipocrisia di ruolo interpretata dai loro esponenti, e avere una inoppugnabile documentazione - basata su atti parlamentari legali - che consentisse di uscire fuori dalla griglia delle interpretazioni soggettive, delle manipolazioni, delle mistificazioni, e avere finalmente un quadro chiaro del progetto strategico di politica economica del PD. E così capire dove vogliono portare il paese. Alle ore undici del 15 gennaio 2014, è arrivata la prova decisiva. Era l'ultima possibilità per l'Italia. Gli eletti del M5S, infatti, presentavano una mozione al governo sulla quale hanno preteso un voto dell'aula. La richiesta dei parlamentari pentastellati non aveva niente di pretestuoso, nè - in verità - nulla di rivoluzionario, nè tantomeno poteva rappresentare un ostacolo per la stabilità dell'attuale governo in carica, e men che meno rappresentare un pericolo per la nazione. Anzi. Ciò che i deputati M5S hanno chiesto al governo è stato di "rimodulare la propria posizione nazionale come Stato sovrano e avviare una immediata consultazione per rinegoziare le condizioni imposte dal Fiscal Compact e dal Mes": tutto qui. E' bene che sia molto chiaro a ogni cittadino ciò che si è verificato, perchè il futuro dei 60 milioni di italiani dipendeva da questo voto. Non si trattava di prendere alcuna decisione unilaterale, non si trattava di protestare alcun Trattato in vigore, non si trattava di venir meno a nessun tipo di accordo inter-governativo e inter-statale firmato da questo governo e da quelli precedenti. Si trattava soltanto di approvare la "pretesa da parte della cittadinanza italiana di andare a rinegoziare i meccanismi del Fiscal Compact", tradotto in parole semplici e povere: far passare alla Camera un provvedimento che consentisse ai nostri governanti di poter telefonare alle specifiche commissioni europee e al Presidente della Banca Centrale Europea e dir loro: "salve signori, dobbiamo vederci subito perchè il Parlamento e la Legge della Repubblica Italiana ce lo impongono: dobbiamo aprire una trattativa per fuoriuscire dal limite imposto del 3%, dobbiamo rivedere il nostro ruolo e negoziarne i tempi di applicazione perchè non siamo più in grado di sostenere economicamente i punti sottoscritti, pena il varo -al massimo entro due mesi- di suppletive manovre finanziarie di ulteriore grave tassazione e pesanti tagli ai servizi sociali nazionali che la cittadinanza italiana non è in grado a nessun livello di poter più sopportare, pena il crollo definitivo della nazione". Si trattava, detto in parole ancora più semplici, di offrire su un piatto d'argento ai nostri governanti l'opportunità di rendere reale la loro ambizione: sostenere la stabilità del paese. Si trattava di consentire "l'apertura di un negoziato". Soltanto di questo. La votazione alla mozione M5S ha dato i seguenti risultati: il 72% dei deputati l'ha rigettata votando contro (Forza Italia, Nuovo Centro Destra, PD, Lista Civica Monti, Udc, tutti compatti). Il che vuol dire che la cosiddetta sinistra italiana -ovvero il PD- non vuole "ufficialmente" andare a negoziare a Bruxelles, a Francoforte, a Strasburgo. Lo ripeto a scanso di equivoci perchè non esistano ambiguità di sorta: neppure una trattativa. Questa posizione passiva di totale svendita della nazione ha chiarito - al di là di ogni ragionevole dubbio - la politica economica del PD: "non c'è niente su cui trattare, noi eseguiamo gli ordini della Troika in maniera piatta e passiva e basta". Da oggi, 15 Gennaio 2014, il PD è diventato ufficialmente il curatore fallimentare dell'Italia. La possibilità e l'opportunità di poter dimostrare che non è così l'hanno avuta. Questa, per come appare, è la loro piattaforma elettorale per l'Europa: evitare ogni negoziato, evitare ogni discussione in merito ai trattati, evitare che il Ministero del dell'Economia e delle Finanze della Repubblica Italiana possa dire alla cittadinanza: "ecco qui i 100 miliardi di euro di cui siamo debitori nei confronti della piccola e media impresa, ce li abbiamo in cassa perchè abbiamo rimandato la data di scadenza del pagamento degli interessi, grazie alla trattativa vincente con l'Europa". Il PD, ieri, in Parlamento, scientemente, ha suicidato la nazione. E' un atto parlamentare. E' un dato oggettivo. E' una votazione valida. E' una indicazione politica. E' la parola d'ordine da eseguire. Non c'è niente da interpretare, non esistono punti di vista diversi. Si può soltanto commentare e sostenere: "mi piace/non mi piace". Dobbiamo cominciare ad abituarci a parlare su dati oggettivi, inoppugnabili. E' l'unica - e ultima - possibilità di poter riagguantare il Senso: far decidere ai fatti e ai documenti. Tutto il resto è fuffa che serve ad alimentare inutili chiacchiere fuorvianti della cupola mediatica, per portare acqua al mulino di chi ha scelto di mettersi al servizio di coloro che considerano l'Italia una nazione di livello talmente basso ma talmente basso, da non poter avere neppure l'ardire (e l'ardore) di aspirare a sedersi a un tavolo di trattative internazionali. Non dico vincere, ma almeno discuterne. E poi ci stupiamo se il governo dell'India o del Kazakistan ci prendono a schiaffi in faccia?" Sergio Di Cori Modigliani |
Come porre fine al web italianodi Cortes del 18/12/2013 alle 11:57 http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/18/la-web-tax-diventa-legge-si-chiamera-spot-tax/818084/ |
L'Italia scomparirà in pochi decenni.di Cortes del 14/12/2013 alle 16:00 Giovedì, 17 ottobre 2013 – 15:14:00 L’ANALISI DI ORSI “Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà. Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione. Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa. L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani. La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare. L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia. L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi. L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia. In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato. Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna. Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare. I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.” |
A proposito di "Forconi"di Cortes del 14/12/2013 alle 15:50 L’invisibile popolo dei nuovi poveri di Marco Revelli, da il manifesto, 13 dicembre 2013 Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti. La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse. Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilissimo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica. Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa… Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre. Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere. “Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia. E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo… Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto. Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena. Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo. |
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